domenica 23 settembre 2012

La crescita, il dogma e il buon senso: su un discorso di Fabrizio Galimberti.

Sono rimasto piuttosto stupefatto dalla risposta di Fabrizio Galimberti ad un lettore che gli poneva una raffica di domande sul tema della “crescita”. Del tipo: quanto ricchi dobbiamo diventare visto che nessuno riesce a mangiare più di un maiale al giorno? E il concetto di “redistribuzione della ricchezza” è davvero tanto sgradevole? E’ proprio indispensabile misurare la “qualità della vita” con la “quantità di ricchezza”? E così via.
Sotto il titolo di “Almeno due buone ragioni per crescere”, Galimberti rispondeva richiamando sensatamente l’esigenza di sostenibilità dello sviluppo, l’importanza dei “fattori extraeconomici” per il benessere, gli studi su indicatori alternativi al Pil come l’Indice di Sviluppo Umano delle Nazioni Unite o quello della Felicità Interna Lorda adottato in Bhutan, e altri concetti del genere, ben noti a chi si preoccupa di queste cose.
Dopodiché indicava la prima buona ragione per crescere nel fatto che “i bisogni umani sono praticamente infiniti” e non sono soltanto materiali, mentre lo stesso benessere materiale non è ancora cresciuto al punto da cancellare l’indigenza e la miseria. Anche su questo si potrebbe discutere, osservando fra l’altro che Galimberti si astiene del tutto, nella sua risposta, dal far cenno al tema della redistribuzione.
Ma la cosa stupefacente è la seconda “buona ragione” da lui addotta, che merita di essere riportata per esteso: “Lo scopo ultimo di un sistema economico è quello di dare lavoro a chiunque voglia lavorare: un’occupazione non è solo guadagno, ma soprattutto dignità e indipendenza”.
Veramente, molti di noi credevano che lo scopo ultimo fosse quello di soddisfare bisogni e (Giorgio Ruffolo docet) desideri: e che il lavoro fosse un mezzo a questo fine. Ma passi. Ecco il seguito:
“Ora, per dare un’occupazione c’è bisogno della crescita. Perché, anche se la popolazione rimanesse stabile, la produttività aumenta […] Il progresso tecnico (ed è impossibile fermarlo!) continua a escogitare nuove maniere di produrre di più con meno ore di lavoro. Se la produttività aumenta del 2% (mettiamo) e le braccia che lavorano rimangono le stesse di prima, il prodotto aumenterà del 2%. Ma se invece noi ci poniamo l’obiettivo della “crescita zero”, il fatto che la produttività aumenti del 2% vuol dire che quel prodotto, uguale a quello dell’anno precedente, potrà essere sfornato col 2% in meno di occupazione. Insomma crescita zero più produttività che cresce vuol dire disoccupazione crescente.”
Stupefacente. E’ stupefacente che Galimberti non si lasci nemmeno sfiorare dall’idea che l’aumento della produttività possa portare, anziché ad un aumento o del prodotto o della disoccupazione, ad una riduzione dell’orario di lavoro che lasci inalterato il livello di occupazione ed anzi, alla lunga, lo faccia crescere. E’ una questione puramente matematica: se il lavoro produce di più, si può aumentare il prodotto e mantenere inalterata la quantità di lavoro oppure mantenere inalterato il prodotto e diminuire la quantità di lavoro. Fin qui Galimberti non ha torto. Ma non si vede proprio perché la riduzione della quantità di lavoro totale non possa portare ad una riduzione del lavoro pro capite, cioè dell’orario di lavoro, anziché ad un aumento della disoccupazione. Contrariamente a quanto vuol far credere Galimberti, non c’è proprio alcuna intrinseca necessità che costringa alla seconda opzione, come dimostra del resto ampiamente la storia economica degli ultimi due secoli.
Come si spiega un simile abbaglio? Il fatto è che il divieto di riduzione dell’orario di lavoro non è che uno dei tanti dogmi del neoliberismo che si sono talmente radicati nella mente di tanti economisti e commentatori da sfidare perfino la logica. Siccome noi dobbiamo per forza lavorare quaranta ore, dobbiamo per forza produrre di più, altrimenti non sarà concesso a tutti il privilegio e la “dignità” di lavorare quaranta ore. L’obbligo di lavorare a più non posso è la variabile indipendente che ci costringe a produrre sempre di più anche se il prodotto non serve a niente. La logica e il buon senso devono soccombere alla granitica durezza del dogma. Se questo dogma convenga di più a chi lavora o a chi miete il profitto è quasi superfluo discutere.
Naturalmente ci possono essere, e di fatto ci sono, tutt’altre ragioni per ritenere ancora necessaria la crescita in questo particolare momento storico. Ma fra le buone ragioni non c’è questa.
Su una cosa, in ogni caso, Galimberti vede bene: il progresso non si può fermare, la produttività continuerà ad aumentare. Per fortuna non è improbabile che qualche dogma rimanga travolto in questa cavalcata inarrestabile.

Nota: Ho reperito la nota di Galimberti in uno di quei libretti, spesso indesiderati, che Il Sole 24ore spietatamente allega ormai quasi ogni giorno alla sua copia cartacea quotidiana. Il testo è reperibile online sotto il titolo indicato, “Almeno due buone ragioni per crescere”


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